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I Serpenti di Melqart

Anticipazioni dal libro

 

Capitolo 1
DERIVA

Tenendolo sottobraccio gli parlava e indicava l'orizzonte dell'Atlantico.
"Io ne sono sicuro... i naviganti del tempo antico, molto antico, hanno attraversato quest'oceano. E anche altri. Non sempre di propria volontà, lo sappiamo per certo: navi fenicie e canoe polinesiane coprirono distanze enormi dopo aver perso la rotta, trascinati da tempeste, dalla deriva di correnti, di venti." Dopo una riflessione, aggiunse: "Una nave fenicia potrebbe aver attraversato l'Atlantico... e forse raggiunto l'America del sud..."
Un fragore di risacca, poi: "Di certo quei marinai caddero nel terrore quando non videro più in cielo la Stella Polare, loro guida..."

(...)

Li accecò una folgore scaricata con rabbia improvvisa dalla nube distesa fin dal tramonto sulle acque dell'Oltre. Al bagliore seguì un lampeggiare quasi ininterrotto, il mare s'illuminò fino all'orizzonte, mentre nel cielo si vedeva la nube rotolare su se stessa, ingigantirsi.
Il rimbombo aggressivo dei tuoni li investì con la sua voce lugubre. S'affrettarono a rinforzare le cime alla vela, a fissare sottocoperta i lunghi remi e sul ponte quanto avrebbe potuto causare danni, se le acque avessero continuato a gonfiarsi, scuotendo la gaulois. Aggiunsero una doppia cima per tener salda nel suo alloggio la tavola ricurva usata per sbarcare. Nella stiva, controllarono la zavorra.
Con echi sibilanti il vento crebbe. Tanto da consigliare di ridurre al minimo la velatura, ammainare il fiocco teso a prora e portare a meno della metà la rossa vela di maestra. Non fu una manovra facile; mancò poco che Reitaal, marinaio anziano, perdesse l'appiglio e finisse in mare. Tuttavia nemmeno il montare delle onde e il tambureggiare di tuoni, preceduto da guizzi di fuoco, spaventò l'equipaggio. E tantomeno il suo comandante.
A ogni folgore le onde apparivano mostruose più di quanto il rollio della gaulois lasciasse supporre.
A bordo erano in venti, ombra nella notte fonda. Eccetto il giovanissimo Chitio, navigavano insieme da molti anni, avevano affrontato tempeste di maestrale e di scirocco e sempre avevano portato in salvo la nave a loro affidata.
Nulla li aveva mai impauriti, e non ci sarebbero riuscite nemmeno queste onde che venivano dall'Oltre, sconvolgendo il fiume Oceano, dove navigavano per la prima volta dopo avere da tempo superato le Colonne dedicate al dio Melqart. E dopo avere raggiunto e superato Mogador, nel paese di Cam.

Presagio di tempesta era stato il tramonto del sole, inghiottito da una lontana nube opaca. Adesso era sopra di loro, squarciata, ricomposta e gonfiata da venti impetuosi. Ululavano da punti diversi, contrapposti, e fu necessario ammainare l'ultimo lembo di vela, abbandonandosi impotenti al loro crescente furore.
Eppure, dopo aver superato le Colonne, vento e mare erano parsi favorevoli alla loro rotta. E la Stella, luce sempre immobile e amica nel cielo, infondeva sicurezza nel nocchiero Ithobal, pilota navigatore. Aveva al collo, legato a una sottile striscia di pelle, un amuleto in ceramica: un grande occhio dai colori accesi. "Lui e la Stella mi guidano, quando temo di smarrirmi in mare" ripeteva spesso; e poiché aveva sempre portato la nave sino alla meta prefissata e l'aveva ricondotta al porto da cui era partita, s'era conquistato la gratitudine dei compagni di viaggio.
Lasciata Mogador, nessun marinaio di Figlia di Nuvola era stato costretto alla fatica dei remi. Refoli freschi e costanti avevano accelerato il viaggio, alleviando la sferza di un sole che nessuno di loro aveva mai sentito così rovente.
Solo al quarto giorno tutto era mutato attorno a loro, il cielo e il mare. E nella notte successiva, la certezza di superare ancora una volta lo scoppio d'ira di dei e spiriti infuriati si spezzò, crollando come la parte superiore dell'albero di maestra.
Masse d'acqua si rovesciarono in coperta, gli uomini furono costretti a rannicchiarsi sotto il ponte di prua, afferrarsi a un appiglio, legarsi con una cima l'uno all'altro. Impotenti, intravidero finire in pezzi il simbolo di prora, orgoglio della nave, la testa di cavallo in legno di cedro. Staccata dal suo supporto, trascinata da un'onda più alta e pesante di altre, scomparve nella notte. Sinistro presagio, perché poche ore dopo una disgrazia maggiore s'abbatté su di loro.
Lixus il timoniere venne afferrato e trascinato fuori bordo da una valanga liquida. Da marinaio senza paura, era rimasto sul ponte di poppa, stretto con tutte le sue forze al remo-timone. Malgrado tutto, riusciva a manovrarlo.
Allo scoccare di un lampo il cui riflesso durò a lungo, i compagni lo videro sollevato di peso dal sorgere d'una imponente massa d'acqua. Videro spezzarsi l'anello di cime che consentiva di manovrare il pesante legno di governo. Videro il remo-timone sparire come lui nel nulla ruggente di creste bianche.

Venne la pioggia, portata da raffiche gelide. Le gocce divennero schegge di ghiaccio. Solo qualcuno di loro ne aveva viste di simili, nelle alte montagne di Canaan, la terra dei padri. Durò solo il tempo di imbiancare la tolda, poi il vento cessò e l'acqua rovesciata dal cielo prese a scrosciare tiepida.
"Questa è la salvezza" si disse Telh Surash "Una pioggia fitta soffoca le onde." Navigava da quasi vent'anni, da cinque comandava Figlia di Nuvola. Più d'ogni altro marinaio a bordo, e fors'anche più di tutti quelli del porto di Qart Hadasht, aveva dimostrato di saper superare la furia del mare anche con imbarcazioni piccole e deboli. Oggi doveva accorgersi, con una paura mai prima d'allora provata, quanto le esperienze del mare interno non valessero nulla, in quello dell'Oltre, le sconfinate acque del fiume Oceano distese attorno alla Terra di Cam.
Trascinata lontana dal vento che aveva ripreso a ululare, la pioggia cessò. S'incattivì ancor più il mare, e di nuovo li investì con masse d'acqua di molte misure più alte della pur alta poppa della gaulois.
Telh Surash maledì il mercante che lo aveva convinto a varcare le Colonne, a navigare nell'Oltre seguendo la costa del paese di Cam, e superare Azemur e Jadith, per raggiungere Mogador.
Maledì anche se stesso e il momento in cui aveva accolto la proposta di sfidare quelle acque per navigare nell'ignoto, accecato dal desiderio di raggiungere i mercati della gente nera dove l'avorio si scambiava con poco.

(...)

Si placò l'uragano che aveva trascinato con sé Lixus, dopo cinque giorni e sei notti. Dal cielo sparì ogni nube, s'affievolì e poi svanì ogni soffio di vento.
La gaulois, senza il suo timoniere e senza l'albero di maestra, rimase immobile nell'immobile, torrido caldo del tropico. La costa non era più in vista. Forse era solo la foschia a nasconderla, ma nessuno s'impaurì di questo. Né in un primo momento impensierirono quella bonaccia né la fitta foschia tutt'attorno. Anzi, quella pace e l'improvvisa immobilità aiutarono l'equipaggio a superare il dolore per aver perduto il compagno più prezioso.
E per un giorno si sperò nella salvezza del comandante. Giaceva immoto per le ferite provocate dalla caduta dell'albero centrale, al terzo giorno d'uragano, abbattuto dalle raffiche contrastanti del vento, benché liberato per tempo dalla vela. Crollando sul ponte aveva ferito un marinaio e Telh Surash; il primo solo di striscio, il comandante sul capo e sulla schiena. Ora, in un giaciglio sotto il ponte di poppa, giaceva a occhi spalancati, lo sguardo fisso, senza rispondere alle domande né muovere un dito.
"Morirà" sussurrò Ithobal scuotendo la testa. Più tardi, nella notte, si rivolse al giovane Chitio, sempre accanto a lui. "Noi perderemo il comandante e tu il padre."
"Mio padre si chiama Ozum" obiettò il ragazzo.
"Io so quanto tu non sai" fu la risposta, e forse avrebbe detto di più se da poppa non fossero giunte grida prima soffocate, poi alte e rabbiose: due marinai erano venuti alle mani. Ithobal corse tra loro, e solo a fatica riuscì a placarli.

Era il primo segnale d'una tensione crescente. La paura traspariva negli sguardi di tutti.

Avevano tentato di alzare un albero provvisorio, rabberciare uno straccio di vela, mettere in acqua una sembianza di remo-timone. Ma per dirigere dove? La foschia si diradò e brillò il sole; ma la costa sembrava svanita nel nulla. Quando il marinaio Eigarth gettò un segnale galleggiante, fu chiaro a tutti che la gaulois era trascinata da una corrente impetuosa. Di notte la sentirono crescere come se fosse il corso di un fiume in piena.
Era necessario sostituire Tel Surash: la nave non poteva restare senza comando. Venne scelto e finì con l'accettare Reitaal; a bordo era lo scriba, e si avvicinò al volto impassibile di Melqart. "Mio era l'incarico di narrare del nostro viaggio per gli annali dell'Arsenale" mormorò. "Gli dei, temo, non mi concederanno questa gloria."
Il suo timore era quello di tutti. Quando non videro più i gabbiani volare attorno a loro era il quarto giorno di calma piatta. Lo sgomento li assalì e si fissarono l'un l'altro smarriti. La linea della costa, fedele compagna del loro navigare, non era ricomparsa.
"Ci attendono giorni di sete. Dividiamo l'acqua in dosi minime" ordinò Reitaal. "Stendete sul ponte quanto resta della vela. Raccoglieremo la rugiada della notte."
Ma non ci fu rugiada, l'aria restava infuocata, le notti si susseguivano "con il calore di un forno", come disse imprecando il marinaio Dabso.
Era la temperatura del tropico, ignota a marinai abituati ai limitati balzi di clima del mondo a loro familiare.
Avrebbero preferito tornare alla sfida con la tempesta piuttosto di sopportare tanto passiva immobilità. Erano domati, umiliati.

Al decimo giorno dall'incidente Telh Surash si spense. Attesero la sera, l'avvolsero in un telo, come avrebbero fatto i suoi familiari, e legarono ai suoi piedi uno dei sassi perforati usati come ancore di rinforzo.
Con quel peso sparì, inghiottito dal fiume Oceano. Su di lui si richiusero senza un suono acque tanto immobili da parere dense.
Ithobal, prima di quell'atto conclusivo, aveva gettato uno straccio sul bronzo di Melqart. Lui portava fortuna. Non doveva né vedere, né udire.
Il nostromo Reinah pronunciò a voce alta una preghiera al dio lunare Yarih sorto all'orizzonte e al dio solare Shamem, svanito nelle acque poco prima. A voce bassa aggiunse la preghiera a Moth, dio della morte.
Un solo marinaio, a bordo, era fedele a quella divinità. Taciturno, forte, sempre pronto per i lavori più difficili e faticosi, si diceva che fosse scampato per caso alla battaglia navale contro i greci d'Agatocle il siracusano. "Da allora Moth mi cerca, mi vuole…" ripeteva spesso.
Il dio della morte lo trovò quella notte. Scomparve nel silenzio e fu il primo a scegliere una rapida fine per sfuggire a una lenta agonia.