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Folco Quilici
Filmografia
 

 

"Il Messaggero"
luglio 2003

MARMO COME ORO

Sto per vivere quanto potrà rivelarsi un'avventura tra le più emozionanti della mia vita di cacciatore d'immagini e viaggiatore nel tempo.

Darò la caccia a un tesoro che non si nasconde, come altri da me inseguiti e raggiunti filmando in Oceania, o in Amazzonia, o nei fondali oceanici, ma da due millenni giace sotto i nostri occhi. Aggiungo che non alludo alla parola "tesoro" in senso metaforico, ma la riferisco a qualcosa di fisicamente concreto. Quale può essere un pezzo di pietra.

Quella particolare pietra chiamata marmo.

La parola etimologicamente significa "brillio, trasparenza del mare", remota e splendida definizione che offre prova di quanto alta fosse, sin dall'antichità, l'ammirazione per la bellezza di una simile creazione della creatura, nelle sue infinite varietà. Varietà a volte rare; di alcuni marmi usati nell'età imperiale di Roma e pagati a peso d'oro, in epoca moderna non si sa con certezza da dove provenissero.

Del più pregiato, il porfido, fanaticamente amato dagli Imperatori di Roma, nessuno sino a fine ottocento conosceva il luogo d'estrazione. A trovarne l'unica grande cava africana fu un certo Hume, topografo e archeologo inglese; studiando la Naturalis Historia di Plinio, aveva letto che il porfido, in età classica, veniva imbarcato per Roma nel porto di Alessandria. Hume partì per l'Egitto, iniziò le sue ricerche sfidando deserto e montagne; a portata di mano aveva una scheggia color sangue e quando si trovava di fronte a beduini nomadi o alla gente delle oasi, la mostrava e chiedeva: "Avete mai visto una pietra come questa? dove?" Sembrava un'impresa impossibile, invece Hume riuscì a trovare quanto cercava. Una montagna infernale nel cuore del deserto egiziano dove la temperatura raggiunge i 50 gradi. Là, migliaia di schiavi condannati ad metalla scavavano e morivano per rendere uniche le sculture che ritraevano gli Imperatori, e magnifici i loro palazzi, le loro terme. Perché si morisse nelle cave di porfido, è facile comprenderlo non solo considerando le condizioni del luogo, ma soprattutto la fatica inumana di quel lavoro; se per estrarre a colpi di scalpello un metro cubo d'un marmo comune bastavano trecento ore, per estrarre egual misura di porfido di ore ne occorrevano cinquemilacinquecento. Quasi venti volte di più.

Massimamente rara e pregiata era, in età classica, anche la verde scura e lucente basanite. Una statua scolpita in quella materia sembrava di bronzo e per questo la si pagava un prezzo particolarmente alto.

Ma dove si estraeva quel marmo? Della basanite si conosce l'ubicazione di una piccola cava, nel sud dell'Egitto; ma considerando il numero delle opere giunte dall'antichità, di cave della stessa materia ne dovevano esistere altre, ben più ricche. Dove?

Ritiene d'aver identificato il luogo un noto esperto in questo campo, Dario Del Bufalo. Interpretando epigrafi e testi, egli ritiene che una grande cava di basanite si trovi nella Nubia sudanese, dove in questi anni è però impossibile compiere ricerche, per ragioni politiche e militari.

Mi auguro d'essere accanto a Dario Del Bufalo, se nel prossimo futuro riuscirà a compiere questa esplorazione; intanto sarà lui nei prossimi mesi a guidarmi nell'impresa di raccontare in immagini l'affascinante e in parte misteriosa epopea del marmo dai mille colori.

Al suo studio si dedica da una vita, come allievo e amico del maggiore esperto di questi tesori, Raniero Gnoli, autore di un'opera fondamentale, "Marmora Romana". Per me quel libro sarà una sorta di Bibbia nel ripercorrere le piste nei deserti e le rotte nei mari lungo le quali il marmo giungeva a Roma per arricchirla e abbellirla.

La policromia come simbolo di opulenza e potere, merce preziosa per edifici civili e religiosi; per la statuaria, per l'edilizia pubblica, il lusso di privati, la vanità degli uomini di potere. Ne offrono prova ruderi di palazzi, anfiteatri, ville, terme, templi; oggi scheletri, ieri edifici sontuosamente decorati con marmi di ogni provenienza, dai colori e disegni diversi.

 

Una moda che finì con trasportare, dalle cave in Italia e nelle terre conquistate, milioni di tonnellate di marmi. A parte il valore delle creazioni architettoniche e scultoree, l'impresa di quel trasporto fu un successo oggi difficilmente spiegabile, considerando la limitata tecnologia dell'età classica. Il nostro tempo, anche con l'aiuto di macchine possenti, difficilmente saprebbe raggiungere simili risultati.

In quella che ho poco sopra definito la mia prossima avventura, la parte forse più spettacolare riguarderà il capitolo relativo al trasporto attraverso il Mediterraneo di quanto veniva estratto nelle cave oltremare. Avveniva con navi speciali, le "lapidarie" e per aver idea delle loro dimensioni, basti pensare allo scafo che imbarcò l'obelisco di granito per il circo Vaticano; era di tali dimensioni da essere in seguito utilizzato come fondazione del faro nel porto di Ostia. Era d'una lunghezza di circa cento metri, largo venti e aveva attraversato mille miglia di Mediterraneo con il peso di circa trecentoventicinque tonnellate dell'obelisco, più altri blocchi di granito, e centosettantacinque tonnellate di lenticchie, usate come zavorra. In tutto milletrecento tonnellate!

La ricerca di quanto il nostro mare conserva, ovvero i carichi delle lapidarie mai giunte a Roma ma naufragate, mi consentirà di dedicare un capitolo del mio lavoro a un marmo particolare. Citandolo posso ancora usare il termine di "tesoro", anche se non era policromo; proveniva dall'Asia Minore, dalle cave di Assos. Era violaceo, a renderlo unico e costoso era una sua incredibile caratteristica: riusciva a "consumare" il corpo di un defunto in quaranta giorni. Venne detto, perciò, lapis sarcophagus, la parola (sarcos corpo, fago mangiare) indicava l'uso particolare e macabro al quale si adibiva quel marmo.

Pesavano molto, i carichi di questi sarcofagi che giungevano dalle lontane cave.

Il viaggio per mare, bordeggiando le tempestose coste greche e dell'Italia meridionale, presentava molte incognite.

E infatti interi carichi giacciono in vari punti dove le lapidarie furono vinte dai marosi.

Ho visto gli splendidi sarcofagi giacenti sotto le scogliere dell'isola di Methone, nel Peloponneso e nelle sabbie della costa pugliese, dove un piccolo corso d'acqua, il Chidro, sfocia nel Mar Jonio. Questi, come quanti ne vediamo esposti nei nostri Musei e nelle aree archeologiche, sono istoriati. Ma quando giungevano dalla loro cava d'oriente, erano grezzi; solo successivamente venivano incisi con iscrizioni e bassorilievi destinati a onorare il defunto.

E grezzi appaiono, appunto, quelli del carico perduto sulla costa ionica. Sua rarità, sono i differenti modelli che gli artigiani di Assos avevano ricavato lavorando la nera materia. Sul fondo, quando mi sono immerso per conoscere il sito dove giacciono da duemila anni, oltre a quelli di forme consuete, ho visto sarcofagi piccoli, per bambini. E un altro doppio per una sepoltura abbinata; forse per una coppia di sposi.

Questo era molto raro. Un tesoro del tesoro.

Folco Quilici