Home Page Archivio foto e film curriculum lavori recenti libri Videocassette L'avventura e la scoperta reportage


Folco Quilici
Filmografia
 

 

"AQUA"
30 settembre 2004

C'ERA UNA VOLTA IL PATIÀ

(Polinesia)

Non posso non iniziare queste mie note dedicate a esperienze di mare, lontane e mai dimenticate, senza dedicare la prima "memoria" ai cacciatori subacquei delle Isole Tuamutu. Nell'Oceania più remota.

L'Oceania occorre vederla, oggi, come certe scene a volte trasmesse dai TG: "servizi" su edifici filmati mentre crollano in pochi secondi per l'esplosione simultanea di speciali cariche di dinamite. Un attimo e mura possenti s'afflosciano; un lampo e costruzioni fino a un momento prima in ottima salute scompaiono per essere sostituite da altre più moderne, efficienti (ma spesso anonime).

Questo paragone con l'Oceania e la sua scomparsa come mondo di genti che vivevano in simbiosi con l'oceano, mi sorge spontaneo, avendo conosciuto questo continente d'acque e i suoi abitanti negli anni Cinquanta, quando l'infinito mondo insulare era ancora se stesso. E essermi reso conto da allora in poi, di quanto fosse rapida la crisi d'identità che tutto mutava e cancellava, isola dopo isola.

Una serie di crolli improvvisi, a catena. E quanto aveva resistito per secoli è stato cancellato in pochi stagioni.

Tutto, nel mondo, è mutato in fretta, negli ultimi decenni; ma è mutato, appunto. Non scomparso.

A spiegare il diverso destino dell'Oceania insulare (non parlo qui dell'Australia) è stata certamente la durezza e la semplicità della vita che caratterizzava le genti sparse in migliaia di piccole isole. Facili prede quelle isole, una a una, di ogni genere di mutazione e trasformazione.

Non di per sé tutte negative; ma sommate le une alle altre creatrici d'una forza d'urto estremamente corrosiva. Efficace specialmente quando l'attacco mirava a un avversario già indebolito organicamente.

 

Ricorro a memorie di ieri e di oggi per spiegare quanto scrivo con l'evidenza di fatti minimi (a volte più demolitori dei maggiori).

Negli anni Cinquanta e Sessanta, avevo visto e filmato (credo di esser stato il primo) "come" sopravviveva la gente del mondo insulare dell'Oceania. Era la pesca, il loro principale sostentamento; negli arcipelaghi i pescatori nuotavano sott'acqua, gli occhi protetti dai piccoli occhiali di legno, i titià, difesi da un'arma subacquea che solo loro sapevano maneggiare, un palo appuntito di tre metri, il patià, l'arpione che i pescatori sapevano maneggiare sino a venti metri di fondo. Oggi non è possibile rintracciarne nemmeno un esemplare da esporre, assieme ai titià, sulla parete di un ipotetico museo antropologico dell'Oceania. Un museo capace di evocare, se non altro con foto e film, il tempo in cui i pescatori a gruppi di cinque o sei, entravano in acqua e all'avvicinarsi di un branco di pesci si nascondevano tra i coralli per non impaurire le potenziali prede. Quando poi erano a tiro, il corpo di ogni uomo si tendeva in un guizzo, il suo arpione colpiva una volta, qualche volta due.

Nel "blu profondo" non pochi pescatori d'Oceania affrontavano squali grandi e piccoli, per difendere le loro prede; non di rado anche lo "squalo tigre". Ormai nel Pacifico meridionale, se ne vedono pochi, di quei giganti del mare; pescherecci giapponesi e coreani li stanno sterminando con le loro reti distese per miglia e miglia tra gli atolli.

 

Abbondano invece, anche negli atolli minori, le antenne paraboliche puntate al cielo per captare le TV rilanciate dai satelliti.

Un esempio, l'atollo di Makemo, perché è protagonista d'una rapida metamorfosi, obbedendo alla parola d'ordine "giù le palme e su il cemento". Infatti il villaggio cresce, i soldi non mancano. Tra le case bambini non giocano con piccole canoe di legno, come un tempo negli atolli; ma si rincorrono su montain bike giapponesi. E forse, nelle loro case, passano il tempo a cliccare la tastiera di una play-station.

Un veloce aereo biturbina vola una volta al mese verso Makemo. Lo chiama all'isola - via satellite - un messaggio: "Il carico è pronto" spedito da un uomo che a Makemo ha un incarico ben preciso.

Sorveglia questa laguna, attento che nessuno tenti di rubarne il tesoro sommerso. E' la nacre, ovvero la preziosa ostrica perlifera che non cresce più per caso, qui. In un ciclo di riproduzione artificiale, è "coltivata" a migliaia d'esemplari sul fondo della laguna. All'interno del suo guscio, le perle non sono rarissime come al tempo della raccolta sui banchi cresciuti naturalmente. Se ne raccolgono, oggi, centinaia al giorno: teoricamente una in ogni guscio; risultato che si ottiene inseminando artificialmente, una ad una, le ostriche altrettanto artificialmente trapiantate in laguna.

Appese a reti di ferro, tra il fondo e la superficie, crescono come uva su filari; grappoli affidati a una flottante architettura sommersa, che crea l'artificiale giardino subacqueo i cui frutti rendono molte migliaia di dollari ogni mese.

Certo, le perle che crescono in simili "incubatrici" non sono né belle né grandi quanto lo erano gli esemplari nati spontaneamente; valgono tuttavia parecchio e consentono alti guadagni all'impresa che ha creato a Makemo la gigantesca infrastruttura. Il capitale si dice sia giapponese; e ai giapponesi è affidato il controllo di tutta la produzione. Suoi tecnici garantiscono che dalla fattoria sommersa non venga esportato nemmeno un esemplare difettoso, malformato. E nei magazzini, dove si conservano i frutti del giardino artificiale, guardiani armati vigilano ventiquattr'ore su ventiquattro.

Buona guardia sui frutti, che s'accumulano; ma soprattutto su quanto sta maturando sul fondo, dove la sorveglianza è organizzata da sommozzatori in turni di immersione regolari di giorno e di notte. E da guardiani armati in superficie.

E' la Polinesia d'oggi, ragazzi!

Folco Quilici